A guardarlo su qualche intervista video in Instagram, si direbbe con buona certezza che l’artista acese Matteo Raciti non sia uno showman, né un esibizionista, per il semplice fatto che abbassa gli occhi spesso, timido, davanti alla telecamera. A esporsi in tutta la loro imponenza e bellezza al posto suo sono le creature in cartapesta a cui dà vita nel suo laboratorio di Viareggio, che si mostrano con la voglia di stupire e istigare una parvenza di riflessione nel pubblico, che si riversa copioso sulle strade del Carnevale di Viareggio, dove anche quest’anno Matteo ha vinto il primo premio. Stavolta, per la sezione “Mascherate di Gruppo”.
Raciti si è laureato in architettura all’università di Catania, si è innamorato della scultura a Pietrasanta e, anche se non vive stabilmente in Sicilia, dal nostro Jonio e dalle botteghe dei carristi della città di Acireale ha imparato tanto.
Matteo Raciti: architetto secondo percorso di studi, scultore per vocazione, carrista come meta finale di questo percorso di evoluzione. Corretto?
Diventare carrista non è il fine unico anche se è parte integrante di un percorso importante.
Alla passione per i carri carnascialeschi, che generalmente si tramanda all’interno di una famiglia di artigiani carristi, tu come ci sei arrivato?
La passione per i carri nasce da piccolo, in modo naturale. Mi ammaliavano questi grandi giocattoloni in cartapesta, queste grandi sculture itineranti, che si muovevano nel bel mezzo di tante luci. Da un lato mi spaventavano, dall’altro mi attiravano. Quando nasci in un posto famoso per il suo Carnevale, vuoi o non vuoi arrivi a conoscere le realtà laboratoriali e i suoi carristi.
È da diversi anni che partecipi al Carnevale di Viareggio con i tuoi carri, arrivando più volte a classificati primo. Quest’anno hai vinto con l’opera “L’umanità ha perso il filo”: ci vuoi parlare di questo lavoro?
È un lavoro artigianale dove si fa una progettazione accurata e sei costantemente messo alla prova. Qualcuno lo chiama il lavoro dei sogni perché, se ci pensi, concretamente si dà corpo a un sogno: dalla mente al disegno, al progetto fino al modellino, per poi realizzare in grandi dimensioni.
A Viareggio il Carnevale, rispetto a molte altre realtà in Italia ha una dimensione realmente professionalizzante. Ciascuno di noi che lavora all’interno dell’evento è titolare di una ditta. Si lavora per sei mesi l’hanno con l’obiettivo delle feste carnevalesche e, nel restante tempo ciascuno opera attraverso canali differenti. Io, per esempio, mi occupo di installazioni scultoree pubbliche e private, di mostre e teatro itinerante da un punto di vista scenotecnico.

Come si è evoluto il tuo laboratorio da un punto di vista tematico e progettuale?
Ho sempre cercato di inserire i miei lavori, dentro e fuori il Carnevale, dentro una dimensione sociale. Credo che l’artista oggi abbia una grande responsabilità, in questo senso. Nel Carnevale, dove ti relazioni con moltissima gente è importante dire qualcosa. Stilisticamente sono un’amante della carta e dei materiali, a cui cerco di dare una forma poetica. È come se ci fosse una connessione fra materiali, oggetti e me stesso. Dal punto di vista tematico ho parlato di argomenti contemporanei attraverso la lente della mitologia e della narrativa. Mi è interessato approfondire il discorso sulla legge Basaglia, che è stata per l’Italia un momento importante di cambiamento.
C’è stato un premio in particolare, fra quelli ricevuti, che ti ha regalato più gioia? Magari perché pensavi che era esattamente quello il riconoscimento che ti meritavi..
Il premio Alfredo Morescalchi alla modellatura nel 2021 con l’opera “Da vicino nessuno è normale”.

Il tuo lavoro è intriso di leggenda e mitologia, soprattutto legati alla nostra isola, la Sicilia. C’è qualche racconto a cui sei particolarmente affezionato?
Forse la leggenda a cui sono più legato è quella di Colapesce, dato il legame fortissimo col mare della mia terra. Alcune volte, quando scendo sott’acqua, penso sempre a questa storia, a lui che per salvare la sua terra resta ancora lì, a sorreggerci nel mare.
Ti sembrerà strano ma molta gente si chiede: come vive un carrista?
La vita di bottega è una vita fatta da grandi sacrifici, dove si combinano momenti di intimità e momenti di grande socialità.
È un percorso meraviglioso che ti chiede di mettere tante, tante altre cose da parte.

Oggi c’è una tendenza comune nell’autodefinirsi “artista” per il fatto di sapere copiare alla perfezione un elemento della realtà. Credi che basti per essere tale?
Non penso basti copiare qualcosa. Ha senso da un punto di vista di studio ma poi dovrebbe esserci una traduzione personale. È una forma artigianale, ma non artistica.
Contrariamente a quanto detto prima ci sono artisti che forniscono un contributo creativo attraverso i nuovi strumenti digitali, ma senza troppa all’abilità con gli strumenti tradizionali. Quanto conta, oggi, la sapienza dell’artigianalità sulla resa del messaggio finale?
Non sono un grande esperto di arti digitali. So solo che io amo sporcarmi le mani quando lavoro.
Aspetti belli e meno belli del tuo lavoro.
Come ho detto prima, l’aspetto bello del mio lavoro è dare forma e valore a quello che hai in mente, col supporto di una comunità. I lati negativi sono l’aspetto della competizione e il fatto di dover sempre avere idee brillanti da presentare. A lungo questa pressione ti sfianca.

Perché un giovane dovrebbe lasciarsi incuriosire da quello che fai?
Un giovane dovrebbe lasciarsi incuriosire da quello che faccio perché è l’ultimo avamposto della vita di bottega. Quando si entra all’interno degli hangar dove si realizzano i carri è come evadere dalla realtà, ma dentro la realtà. Invito chiunque sia incuriosito da tutto ciò a venirmi a trovare nel mio studio a Viareggio.
Come riesce un giovane artista a restare in equilibrio fra social e realtà di laboratorio?
Per tanto tempo mi sono domandato che valenza potessero avere i social nella mia vita artistica e professionale. Col tempo gli ho dato un posto molto importante utilizzandoli come luogo di racconto alle persone interessate al mio percorso. Ai social dedico un tempo giusto al giorno, oltre al quale cerco di non andare. All’inizio mi sembrava potessero inquinare la mia vita artistica, fatta di grandi momenti d’intimità con le cose che faccio ma poi mi sono reso conto che trovare un compromesso ha portato dei frutti dal punto di vista artistico e di confronto professionale.